RANDOM IN KYOTO: IL PROFUMO DELLA NOTTE

“E poi giunsi a Kyoto,
La vidi di notte, la respirai, la amai.
Era bella, e quei fumi nebulosi si facevano sempre più densi, come un pensiero che si insinua nella mente di un amante per non andar più via.
Era notte, e Kyoto suscitava in me un sospiro, un sussulto misterioso, che sarebbe andato aldilà della fantasia e della notte stessa.”

Che sensazione, ritrovarsi a camminare a Kyoto, senza una precisa meta, con l’unica voglia di sentire l’acqua sulla pelle sudata e cogliere i riflessi sottili e delicati che s’infrangono sulle acque immobili e indolenti del Rio Kamo. La pioggia non cessa e io non mi fermo, la notte è troppo bella per non essere vissuta. Kyoto finalmente respira, più sensuale che mai. E’ bella di notte, specie quando cala il buio e i silenzi si fanno più suadenti.

Sono tante le volte che mi son sentito solo qui a Kyoto, a camminare nelle sue notti fredde, nostalgiche, minacciose di gelo, o umide e asfissianti.
I teatri sono vivi e i quartieri, apparentemente desolati, pullulano di vita e trasgressioni.
Le geishe scivolano come spiriti nei labirinti di Pontocho, per poi svanire all’improvviso, con la stessa fulminea grazia di come si sono palesate.
Miti, figure leggendarie che ispirano la poesia della notte, e persuadono perfino cantori e incantatori. Non sei mai sicuro siano vere, così eteree e pure, il loro volto di bianca porcellana attraversa i sogni bui di anelanti adulatori. Come anime soavi, si voltano e scompaiono. La notte di Kyoto è anche questa, subdola, poetica, dolcemente silenziosa.
E poco importa che sia una Geisha o una donna vestita di rosso senza volto, riflesso di eleganza infinita. Ogni cosa vive al margine della fantasia, potrebbe esser vera oppure ologrammata.

La notte di Kyoto rievoca miraggi e ricordi assai arditi, acuti letterari di deliranti samurai, come il monaco novizio che, al culmine di un parabola struggente, dà fuoco al Tempio d’oro, il Kinkakuji, prima di consegnare all’eternità la sua anima dannata. Dannata come il suo creatore, quel Yukio Mishima, scrittore regista e sovversivo, ultimo eroe suicida che si tagliò il ventre con solenne cerimonia, codice d’onore di un Giappone ormai sepolto.

Non bastano però geishe e samurai, ecco aggiungersi al panorama dei miei passi un altro flash. All’improvviso mi ricordo di quando incontrai Kannon e la sua immensa effige. Quella statua mi apparve come un simbolico miraggio, tra i vichi stretti di Higashioji, grande e pura. Guardava l’orizzonte, placida e imperturbabile.
Fino a quella volta non mi era capitato di notarla, nonostante fossi passato in quei dintorni molte altre volte, nonostante essa fosse così vicina al grande Tempio ligneo di Kyumizu-dera.
Era l’effige della Dea della compassione, l’illuminata Kannon, era lì in memoria di tutti i caduti delle guerre andate, a vegliare sulle anime passate e su quelle future.”

E’ così Kyoto, sempre pronta a meravigliarti, a proiettarti con la memoria tra i suoi templi antichi, tra i suoi quartieri silenziosi, sui suoi sentieri infiniti, che una volta imboccati, ti fanno dimenticare la tua essenza e il motivo per cui sei giunto fino a qui. La colpa è della notte.
Già, la notte, madre di miti e di leggende, come quella che avevo letto in un libro di Yasunari Kawabata, Il Lago si chiamava, una storia strana, affascinante e desolante, che raccontava così:

“La notte, gli spiriti dei maestri saggi scendono a popolare il nostro mondo per poterlo purificare da tutte le energie negative che hanno oscurato il cielo azzurro e hanno fatto svanire il sole.
Poche ore e tutto tornerà ad essere innocente e puro, come l’alba di un nuovo giorno.”

Ed effettivamente all’alba tutto svanirà, la luce diurna si porterà via tutto, anche questo mio delirio imbarazzante. Tutto mi sembrerà languido e confuso come un sogno, come un fulmine nel cielo nebuloso, come lo sguardo magnetico di un gatto o come i passi senza orma e senza fine di un vagabondo delirante.

Continua a leggere...